venerdì 13 aprile 2012

La jetée, dilatazione di un film

La costruzione di un luogo è un'esperienza primaria di ambiguità. Sembra manifestare sempre il dualismo contraddittorio tra la libertà ottenuta attraverso la formazione di uno spazio vivibile, formazione di limiti, circoscrizione e la libertà propria dello spazio illimitato, perpetuamente calpestabile verso l'orizzonte di un lungo procedere. È tale l'originarietà dell'esperienza della costruzione di un luogo che ad essa è strettamente legata l'esperienza religiosa, il "templum" era propriamente una limitazione dello spazio: gli àuguri attraverso il lituo delimitavano uno spazio, lo "spazio del cielo" significato di "templum", da cui osservando il volo degli uccelli e interpretandolo profetizzavano tempi propizi o nefasti. Da qui viene il termine "contemplare": cum-templum, dove "cum" è particella preposizionale di mezzo, in parole semplici "ciò che osservo attraverso (per mezzo dello) lo spazio del cielo". Il fatto che la particella sia di mezzo narra dell'azione della costruzione, racconta cioè più a fondo di come sia per mezzo del fatto che si è costruito un luogo, lo spazio del cielo e non semplicemente come fosse una particella di luogo che si tradurrebbe "ciò che osservo nello (all'interno) dello spazio del cielo".
Nel 1962, Chris Marker artista indipendente del mondo cinematografico francese, gira un mediometraggio di circa 25 min. che intitola La jetée. Il cinema e la fotografia erano state inventate nel secolo precedente, entrambe avevano parzialmente a che fare con la costruzione di un luogo attraverso la limitazione dello spazio che era propria dell'inquadratura. A proposito di questo, una decina d'anni dopo La jetée, suggestionato da un racconto di Julio Cortàzar, Michelangelo Antonioni gira Blow up, storia di un ingrandimento fotografico che apre lo spazio di un racconto giallo dove la dimensione temporale pare rovesciarsi proprio a causa di una fessura, una voragine aperta tra due lembi di tempo che si toccano come fosse un anello di Moebius, rovesciando di conseguenza i principi di causa ed effetto. In La jetée era successo lo stesso, eppure non era solo questo, la deformazione del tempo della narrazione o dei suoi principi aveva compromesso anche il tempo principale su cui essa si poggia, il tempo delle immagini sovrimpresse nella pellicola, il tempo dei fotogrammi.
La storia adottata da una voce narrante per recuperare l'agilità della narrazione è però fossilizzata nei fotogrammi, rappresa all'immagine, diviene quasi completamente un fotoromanzo. Ma non è solo questo, sembra che il film sia al di là, sia una risonanza che può esistere solo nella costruzione di un luogo che dia avvio alla contemplazione. Ma alla contemplazione di cosa e da parte di chi? Si potrebbe parlare di più piani e più soggetti, ma credo prima di tutto si tratti della contemplazione di un personaggio, che abita per il tempo del film nello spettatore, della propria storia.
Il film appare, come per le foto di Ghirri di cui si è parlato qualche post fa, anche come una riflessione sulla visione e si potrebbe dire aridamente con accademia trattarsi di metacinematografia.
Ma poi, bruciando in un sol colpo ogni manuale o spicciola definizione, anche le mie, tra i 35'' e i 55'' della terza parte che inserirò in questo post, si assiste a una delle sequenze più toccanti e limpidamente straordinarie del cinema di sempre.
Se la tecnica, la sintassi, la scrittura possono contenere i riflessi delle emozioni, trasformandosi in emozioni esse stesse, allora questo è il caso. Un film destrutturato e fissato in un montaggio di fotogrammi consequenziali, sull'immagine di un volto amato recupera il tempo e la vita e il montaggio si fa serrato aiutato dalla musica nella climax ascendente, i fotogrammi sempre più rapidi e improvvisamente come si trattasse di una qualsiasi pellicola che scorre a permetterci l'illusione visiva di un movimento naturale assistiamo a un piccolo gesto di quel viso, movimenti quasi impercettibili, per pochi secondi, che contengono tutta la forza e la drammaticità e tutta l'ineffabilità espressa dal cinema di una visione, di una contemplazione.

Vi lascio alla vostra visione, sperando vi piaccia.








martedì 3 aprile 2012

Bastoncini

E' un semplice bastoncino. Di legno. Lungo circa 50 cm. Quadrato di quattro lati larghi circa 5 mm. Sarà stata la semplice e spontanea precisione della sua forma, il suo essere di legno, il suo essere metafora.
A coppie abbiamo retto un solo bastoncino, da indice a indice, in equilibrio stabile quanto precario. Gli occhi chiusi, la musica.
Un semplice quanto nuovo esercizio teatrale. Non pensavo ci sarebbe stato un oggetto così semplice da farmene innamorare, non pensavo che un esercizio teatrale potesse ancora stupirmi così.
Il gioco era muoversi nella musica e ad occhi chiusi senza far cadere il bastoncino. Facile ma non troppo. Questione di profondo e intenso ascolto, equilibrio, armonia.
Le coppie poi sono diventate trii e la questione si è fatta più complicata; complessa quando i trii sono stati riunificati in un unico gruppo. Braccia protese unite da bastoncini. Musica lenta accompagnata dal rumore dei bastoncini inesorabilmente caduti.
I movimenti che si possono fare in coppia non si possono fare in un trio e vanno di nuovo ripensati man mano che il gruppo si allarga. Le mie possibilità possono non essere quelle dell'altro. Posso condurre o posso farmi guidare, basta ascoltare.
Il bastoncino è il legame, è il mezzo, è un po' di me e un po' di te, è la relazione. Ed è il laboratorio.
Il bastoncino cade, ma non si rompe. Se mi muovo troppo velocemente chi lo tiene con me non riesce a seguirmi, non riesce a soddisfare le mie aspettative e si sente frustrato, ma è l'inadeguatezza della richiesta a provocare la caduta e non l'inadeguatezza di chi tenta di stare al passo.
Il bastoncino cade, ma non si rompe e io posso raccoglierlo. Posso mettermi in gioco quante voglie voglio, come lo voglio e finchè lo voglio.
Il bastoncino cade più e più volte ma se io me le dimentico, le volte in cui è caduto, non mi arrabbierò. Se nessuno mi sta a guardare continuo a giocare. E allora il presente si allarga e dimentica passato e futuro, in un semplice bastoncino.