sabato 5 maggio 2012

cronachette (ovvero: di Bologna e di altre storie)



Sabato sera a Corticella vecchia è stato come quando sforni il pane e ne senti l'odore; ti entra dolcemente nelle narici come se fosse la prima volta.
O come quando vedi il mare dopo tanto tempo che sei sulla terra, e viceversa.
Sabato sera era casa.
Eravamo nel cortile di un falegname, con l'aia di brecciolino e i fiori di lillà. C'erano le sedie di plastica e i gerani fioriti sul balcone. C'era un film che scorreva lento sul muro della sua falegnameria, e persone infreddolite chiuse nelle sedie.
Era famiglia e riposo dopo una lunga giornata.
Gli occhi del falegname erano vivi, sua moglie non c'era più ma lui aveva guadagnato almeno una trentina di figli.


Domenica invece fin dalla mattina il vento secco ci fa scivolare, ci fa gridare e perdere la voce.
Ci sono i vecchietti dell'ANPI e la loro pasta alla salsiccia, c'è tutto. Tutto quello che puoi volere da una domenica a bologna: zuppa, vino, musica, amici, risate, begli occhi, belle mani, capoeristi, samba, banda.
Domenica di corse, di abbracci, di sole e nuvole, di occhi.
Domenica di fiammiferi, di calore tra pancia e polmoni, di scambi di figurine.

Belgrado è un posto pieno di fantasmi, memorie e macerie.
E' pieno di gomme per cancellare che oscurano un passato recentissimo, è pieno di silenzi. E' un posto segreto.
I giardini delle case sorgono tra cemento armato e finestre coi panni stesi. Sorgono dietro portoni, come a bologna. Tu ne spingi uno e sei in un orto, in una scatola magica, in un fiorire di piante e annaffiatoi.
Belgrado non parla molto, ma canta e beve.
Se vai al mercato i gitani non sono diffidenti, ti offrono da bere e da mangiare, ma i serbi stanno alla larga e osservano.
Se vai sul fiume la sera, ci sono piccole barche che suonano musica balcanica, e tu puoi bere e fumare e cantare al karaoke.
La prima sera eravamo in un bar, la birra chiara scorreva nelle gole a cifre modiche, si parlava tutti un inglese stentato e si rideva di cose che ora non ricordo. Tre metri più in là stava consumandosi una vera festa di matrimonio. Violino tamburello e canti e balli in cerchio. Era tutto meno tzigano di come te lo immagini nei sogni da cartolina balcanica. Ci hanno invitati a mangiare e bere con loro, e le birre si sono trasformate in rakja, in grappa, e le bocche si sono riempite di carne, patate, pane, la dieta base per dieci giorni.
Compartir è dividere il tutto in parti disuguali e fregartene se ti capita il pezzo più piccolo, sopravviverai lo stesso.

A Belgrado ci scontriamo con l'ottusità dei militari e raccontiamo agli altri di bologna cantando bella ciao e mostrando un video della par tot.
Parliamo di arte urbana e di street art, e la cultura mi sembra di nuovo, per un momento labilissimo, un atto politico.
Ulivi scrive nel 1944 che il bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi da ogni manifestazione politica.
La strada mi ha rapita. Il balcano mi ha colpita come uno sputazzo in fronte.
L'ultimo giorno c'è un vento freddo, ci scaldiamo con le mani in tasca e nei bar con il caffè turco.
Belgrado non fa mostra di sè. E come potrebbe, del resto? La cultura ufficiale è ferma da dieci anni, i musei sono chiusi, e le biblioteche funzionano a singhiozzo.
Cerco regali per l'Italia, e a parte comprare una stecca di sigarette, non trovo traccia nè di cartoline nè di palle con la neve dentro.
Belgrado è tutta pieni e vuoti. Non esiste un centro concluso, e la periferia si stende nel nulla della pianura.
Lungo Dalmatinska Street c'è un calzolaio. Dentro ci trovo una donna che aspetta che le sue scarpe vengano riparate. E' scalza, indossa un abito verde e sorride. Ha un filo di perle attorno al collo e quell'aria un pò austera di chi ha visto e taciuto tanto. La donna austera in verde aspetta le sue scarpe, e a me sembra un'attesa bellissima, uno spostamento malinconico di tempi e ticchettii. Non si inganna gli occhi con un libro, non dice niente. Soltanto, aspetta, e si gode il tempo.
So di aver ricordato il Messico, e le lunghissime attese che spiovesse per rimetterci in marcia. Ci sedevamo da qualche parte e zitti guardavamo la pioggia senza sbuffare, lasciandocela scivolare addosso senza che ci incollasse un sentimento metereopatico. Non era un imprevisto seccante, era solo un imprevisto. Bastava aspettare.
Un pò come fai nel traffico di Palermo, ma in modo molto più composto.
Come direbbe la santa informazione "tutto il mondo è paese". Chi più chi meno.

3 commenti:

  1. Che belle storie e posti intrecciati ad altri, un bel viaggio di immaginazione nel leggere e stare in ascolto. Mi è venuta voglia di ripartire, ma non so più se con un bagaglio più vuoto o più pieno...grazie comunque.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. partiamo, che il tempo è tutto da bere.
      e partiamo con una valigia leggera per coltivare la leggerezza.

      Elimina
  2. Faccio sempre una gran fatica ad aspettare, a lasciare che il tempo scorra, e basta. Però a scorrere con gli occhi le tue parole ci si immerge in immagini di colori e di odori e di cibi e bevande che scorrono giù, fresche e calde nella gola. E poi sembra di esser stati lì con te, in un luogo imprecisato tra bologna e i balcani, sul filo di un bugigattolo tra la terra e il cielo.

    RispondiElimina